racconto della via fisarmonica alla mongolfiera, grignetta (lecco, lombardia)


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LA FISARMONICA – MONGOLFIERA

sabato 16 marzo ‘13


E alla fine ritorna! Metri nuovi: 0; motivazione: affondata in un buco nero. Il più grande problema insoluto delle Alpi resta ancora tale! Tutto nasce a causa o per merito (devo ancora raccogliere e riordinare le idee) delle previsioni meteo. Questo inverno proprio non vuole decidersi a cedere il passo e, con l’ennesima perturbazione, porta ancora neve e vento tempestoso che soffiano via i sogni di quota di Luca. È lui a rivoltare la frittata e a ribattere sul chiodo sopito; a me non era nemmeno passata per l’anticamera del cervello! E mentre mi accingo a sprofondare nelle calde coperte, un sorriso a 32 denti mi si stampa in volto; ora abbiamo l’arma in più: un vertiginoso passo in avanti nelle qualità e potenzialità tecniche del team d’assalto. Si, perchè oramai è una guerra, una lotta senza frontiera, chiodo dietro chiodo, staffata dietro staffata alla spasmodica ricerca dell’urlo “vetta!”.

La porzione di Grignetta che ci interessa è sostanzialmente pulita dalla neve: ne resta un po’ nei canali ma nulla di particolarmente preoccupante. Per precauzione infiliamo comunque i ramponi nello zaino, giusto per aggiungere qualche etto ad un peso che, evidentemente, non pare degno dell’impresa. Ma i ferri, nonostante il canale d’accesso alla parete-della-gloria-imperitura sia impataccato di neve gelata, resteranno all’asciutto per tutta la giornata.

Caricato il consueto marasma di materiale, parto così per il primo tiro: salgo con circospezione fino alla clessidra quindi, dopo alcuni metri su roccia bruttina, agguanto la scolorita corda che penzola dalla sosta e che mi permette di superare agilmente l’infido prato verticale.

Recupero così il forte Luca e, caricatolo dell’occorrente, gli trasmetto qualche utile informazione sulle successive lunghezze. L’idea è infatti quella di collegare il secondo tiro con il traverso fermandoci quindi all’orripilante sosta che ci aveva fatto perdere non pochi anni di vita, per poi assaltare la fessura successiva.

Tessendo le lodi sulla qualità della roccia, complimentandosi per l’ottimo stato della chiodatura ma soprattutto scalando come un angelo, Luca supera il traverso completando in un batter di ciglia il compito affidatogli. Mi sveglio dal sogno e precipito nella realtà: ho un freddo cane, le mani (nonostante i guanti) mezze congelate; il maledetto sperone a cui sono appeso rigetta un’indesiderata ombra nella quale affogo il calore accumulato lungo il primo tiro. A tratti mi sporgo alla ricerca di un raggio di sole ma la situazione non migliora granché. Intanto in alto Luca è alle prese con il primo muretto mentre si domanda se l’ultimo chiodo rinviato sia in grado di sostenere una caduta. In ogni caso, piazzato un friend, si ribalta sul tratto successivo per poi salire lentamente e con circospezione verso l’alto: alcuni sassi precipitano sotto il peso delle sue scarpette ma il capocordata controlla la situazione evitando una rovinosa caduta. Arriva così alla sosta della seconda lunghezza per poi affrontare il traverso mentre dipana una serie di imprecanti elogi sullo stato della chiodatura non sempre molto affidabile. Lascio quindi immaginare lo stato psichico con cui lascio il mio freezer mentre ho due cubetti di ghiaccio al posto delle mani e il presentimento che, in caso di volo, la chiodatura possa aprirsi come una zip!

In ogni caso, chiusa la porta del congelatore, apro quella del frigorifero; il sole ha infatti lo stesso effetto di una candela: le mani restano rigide e insensibili riuscendo solo a riconoscere vagamente i rinvii cui mi avvinghio per cercare disperatamente di guadagnare qualche centimetro in più. Arrivo così alla sosta prima del traverso dove recupero uno dei tre chiodi sfilandolo semplicemente con le dita! Sulla corda che mi assicura ne penzola poi un altro, quello che aveva decretato la fine del terzo tentativo e da cui mi ero pure calato! Beh, se non altro, se riuscirò a uscirne vivo anche questa volta, porterò a casa, oltre alle fisse scolorite, anche due utili protezioni! Parto quindi per il traverso deciso, forse più per il freddo che per lo stato delle protezioni, a levare la testa dalla ghigliottina prima che il boia faccia cadere la lama. Luca invece è di un’altra idea: vuole entrare a pieno titolo nella storia dell’alpinismo; i caiani parleranno di Cassin, Bonatti, Messner e Luca Schiera! Forse resterà un angolino anche per me e Fabio ma saremo come Ratti o Habeler oscurati dalla possente fama dei loro compagni.

Con i miei due pezzi di marmo al posto delle mani, rifornisco quindi l’imbraco di Luca che lascia la sosta alla volta della svasata fessura che sale sopra le nostre teste. Ma a dirla tutta, a causa della roccia polverosa come una soffitta, il tentativo si arena subito, con i piedi dell’amico all’altezza delle mie spalle (forse, l’ultima volta, ero salito qualche centimetro di più!). La decisione è presa: abbandonare quanto prima la sosta per tornare a posare i piedi sul solido terreno dando l’addio a questa maledetta parete. Ma si sa, la voglia di ricacciarsi nei guai lievita lentamente e forse il saluto sarà solo un lungo arrivederci in attesa di entrare un giorno nell’enciclopedia dell’alpinismo!


Cavallo Goloso


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sabato 03 marzo ‘12


Bollini recuperati! Forse non tutti, ma siamo sulla buona strada. Il Caianesimo può essere fiero di noi, non c’è dubbio: abbiamo tirato chiodi a raffica e praticamente non abbiamo toccato roccia preferendo i gradini delle staffe al carbonato di calcio e magnesio.

Al ritrovo a Lecco serve poco per decidere dove andare: snobbiamo bellamente la valle per dirigerci verso la “nostra” Mongolfiera; l’inaspettato inizio di primavera ha completamente pulito i canali della Grigna e sarà la causa della scia d’acqua che come due bavose lumache io e Fabio ci lasciamo dietro l’estenuante traccia che sale alla parete. Il saccone pesa un accidenti: all’inizio sembra un nonnulla, si forse un po’ fastidioso, ma comunque sopportabile, poi mano a mano che il tempo passa, quello inizia a stritolare le spalle e a schiacciare l’alpinista contro il suolo. E’ un po’ come prendere il treno: all’inizio si è convinti che, in fondo, 5 minuti di ritardo non siano poi così fastidiosi, ma quando questi diventano la normale routine, da filosofico spettatore ci si trasforma in feroce sovversivo per poi sprofondare nella totale apatia. Lo stesso è il saccone: prima un simpatico e un po’ grassoccio compagno d’avventura, poi la sua invadenza diventa sempre più insopportabile: lo si vorrebbe abbandonare scaraventandolo in una qualche rupe ma poi al solo pensiero della spesa per acquistarlo, ci si riappacifica con l’ingombrante parassita e, lentamente si riprende a sfacchinare con la sanguisuga sulle spalle.

Ogni chiodo ha la sua storia: la prima è quella della protezione piantato da Fabio che cadendomi mentre la estraggo dalla roccia va ad infoltire la ferramenta alla base della parete. Alla fine della giornata faranno la stessa fine ben 4 chiodi uno dei quali riusciremo comunque a trovare: la prossima volta, tra gli attrezzi, porteremo anche il metal detector! Benediciamo la corda lasciata per facilitarci l’arrivo alla prima sosta e poi mi preparo per la seconda lunghezza. Saluto Fabio con un certo senso di irrequietudine frammisto ad una voglia viscerale di superare il traverso e poi, magari, proseguire verso la vetta ma, nel frattempo devo pensare al presente e a questo tiro. La volta precedente avevamo recuperato diversi chiodi lasciandone solo due e quindi ora mi trovo nuovamente a far risuonare la musica del martello tra le pareti calcaree. La testa della mazzetta picchia sull’occhiello finchè il pezzetto di metallo si conficca nella roccia: quando Fabio lo estrarrà avrà assunto un’armonica forma sinuosa. Lo strumento da muratore è decisamente più efficace del martello della Salewa!

Svergino i nuovi dadi e raggiungo il primo chiodo lasciato; ne aggiungo un secondo di sicurezza e quindi proseguo. Oramai sappiamo perfettamente dove piazzare le protezioni e l’uscita dal passo d’artificiale si rivela decisamente più rapida del previsto ma, soprattutto, meno al cardiopalma. I rintocchi della mazzetta risuonano ancora una volta mentre un altro solido chiodo, con gesto sessuale, si infila nella fessura; raggiungo il knife-blade e due dadi e altrettanti friend dopo, sono alla sosta a recuperare Fabio.

Il traverso è lì davanti ai nostri occhi come il chiodo che segna il massimo punto raggiunto nel precedente tentativo. Fabio parte. La foto indica le 12:58: siamo stati relativamente rapidi, bene! Non so se essere contento che sia il suo turno: se da un lato evito lo scabroso traverso, dall’altro so che la gloria bacerà solo lui relegandomi a ruolo di semplice secondo anche se nella nostra cordata, tra bloccaggi e recuperi di corda, l’assicuratore ha un ruolo indispensabile. Fabio piazza due friend e raggiunge il chiodo, intelligentemente ne aggiunge uno in una bella fessura sulla destra e quindi due friend nella direzione di marcia. La staffa lavora alacremente mentre il mio amico cerca di piantare un altro chiodo: prova con il piede sinistro sul gradino e poi col destro ma niente. La fessura non vuole essere penetrata respingendo il fallico strumento e alla fine anche l’assalto. Fabio torna sui suoi passi e ritorna in sosta: abbiamo guadagnato pochi centimetri ma quei due friend a testa in giù sperimentati dal capo cordata mi garantiscono un buon livello di sicurezza. Insomma, la tecnica a fisarmonica si ripete per l’ennesima volta: prendo le corde di Fabio e guadagno il nuovo massimo punto raggiunto. Staffo sul gradino mentre il fifi mi tiene vincolato al friend, mi allungo sulla sinistra e, sfruttando le mie maggiori leve, riesco a piazzare un chiodo. La protezione non entra interamente nella roccia ma sembra garantire una buona tenuta e, comunque, l’abbondanza di protezioni (ben 4 nel giro di pochi metri) è uno sprone per proseguire. Delicatamente mi appendo alle mie colonne d’Ercole mentre ho già individuato dove piazzare l’altro chiodo: una piccola zolla erbosa vola verso il basso mentre al suo posto si infila l’ennesima protezione. La scena si ripete: staffata e il martello lavora ancora. Sono quasi alla nicchia: un’altra zolla prende il volo e un bel chiodone luccica al suo posto. Lo rinforzo con un dado in un buco e sono nuovamente appeso. Mi muovo sempre con estrema cautela e delicatezza: è come giocare agli indiani, non bisogna fare il minimo rumore, ogni passo dev’essere soppesato per guadagnare pochi ma preziosi centimetri. Certo è uno stile anacronistico, nella mia megalomania immagino già le polemiche ma, del resto, siamo solo poveri caiani e quella linea è troppo evidente!

Sono partito con l’idea che piazzerò un bel friendone nella nicchia e poi da lì salirò sotto la fessura. Il movimento non ha alcun senso, sembra più dettato da un’ignorante ostinazione ma resto ceco all’evidenza e mi sposto verso sinistra. Fabio è perplesso. Siamo come Cassin e Ratti (beh, in miniatura): il primo apriva ma era il secondo a suggerire dove passare. Costatata che la strada tentata mi porterebbe verso un nulla di fatto, mi consulto rapidamente col mio assicuratore e quindi ritorno al binomio chiodo-dado. La compatta placca alla mia sinistra ha un solo piccolo neo: un minuscolo mazzetto di fili d’erba, il suo tallone d’Achille, la chiave di volta per il nostro successo. Il piede destro è sulla staffa mentre il sinistro nella nicchia ma arrivo appena a toccare l’erbetta. Mi alzo sull’ultimo gradino mentre l’altro piede spinge su uno svaso sopra la piccola cavità; per stare in equilibrio devo tirare una bella orecchia con la destra ma così facendo, non posso certo martellare il chiodo che entra appena nel buchetto. Devo trovare un modo per liberare l’indispensabile arto e la soluzione mi è nuovamente proposta dal nuovo dadino che riesco ad incastrare in una piccola fessurina: lo carico delicatamente costatando che l’incastro funziona e così, protraendomi alla mia sinistra e sfruttando la mia altezza martello il chiodo in quell’unico spazio disponibile. La protezione si infila completamente nella cavità fin quasi a sparire dentro la roccia quindi la carico e mi preparo a piazzarne un’altra che costituirà la prima della sosta. Il knife-blade canta al rintocco della mazzetta ma, per questo, non mi risparmio nel cercare di dare ulteriori solidi compagni a quel chiodo: alla fine la sosta avrà ben quattro protezioni e una quinta la aggiungerò mentre Fabio sarà impegnato a raggiungermi e piazzare la fissa.

Non resisto: mi scatto una foto in modalità “Fabio” al termine delle fatiche mentre resto appesa alla scomoda sosta; l’orologio segna le 15:30: abbiamo impiegato due ore e mezza per questi 20 metri scarsi, impiegando una decina di protezioni. Per oggi può essere più che sufficiente, anche perchè di chiodi ne restano pochi e la fessura successiva, seppure apparentemente meglio proteggibile, sembra ancora ostica.

Siamo appesi alla sosta nel tentativo di mettere un po’ d’ordine ai cordini che penzolano qua e là quando un rumore secco e l’immediata perdita di alcuni centimetri aumentano vertiginosamente il nostro ritmo cardiaco: due dei quattro chiodi sono saltati! Manteniamo la calma ma contemporaneamente corriamo ai ripari: Fabio collega la sosta al vicino chiodo dentro il buco mentre il sottoscritto la giunta al knife-blade aggiunto mentre assicuravo Fabio.

Rapidamente ma anche molto delicatamente abbandoniamo la scomoda posizione tornando alla base della Mongolfiera con una doppia infinita. Lungo il sentiero le gambe si fanno pesanti e doloranti mentre le spalle si incurvano sotto il peso del saccone: per un po’ le finanze non mi permetteranno di ritornare sul progetto mentre la testa invoca un po’ di tranquillità. Continuo comunque a elaborare le fatiche di oggi: il braccio dolorante mentre batte il martello, la staffa strumento indispensabile per la riuscita del progetto e poi quel chiodo nel buco mentre inizia a farsi strada l’idea di liberare la linea...


Cavallo Goloso


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sabato 26 novembre ‘11


Lo zaino pesa una tonnellata: per issarlo sulle spalle ci vorrebbe un paranco. D’altro canto il piccolo zaino giallo è ricolmo di ferraglia: la serie completa di friend, quelli vecchi da abbandono (alcuni dei quali sono forse pronti per il museo degli orrori), dadi, moschettoni, rinvii ma, soprattutto martello e chiodi; una miriade di chiodi, una vagonata di chiodi. Potrei fonderli e costruirci un’automobile: ne ho comprati un’altra decina e sono determinato a piantarli in quella fessura. Oggi si esce!

Oramai ho memorizzato i passi cruciali dell’avvicinamento e pazientemente attendo di lasciarmeli alle spalle: prima la ripida traccia d’accesso al canale quindi il grosso boulder e il punto in cui la volta scorsa a momenti mi sfracellavo al suolo; poi raggiungiamo il bivio con la punta Giulia: la Mongolfiera ci attende paziente mentre le mie spalle urlano invocando pietà. Chiedo loro di resistere ancora qualche minuto e continuo il mio calvario fino all’attacco. Scarico immediatamente il fardello e subito poso gli occhi sulla nostra parete: il cordone è ancora al suo posto e più in alto è ben visibile la sosta da cui si era calato Fabio.

Lasciamo da parte la tradizione avendone già a sufficienza per la salita e optiamo per fare una volta per uno; quindi al sottoscritto spetta la mannaia dell’infido zoccolo e a Fabio la goduria della seconda lunghezza, il viaggio verso l’ignoto.

Ripeto quindi la sezione su erba e roccia tipo Lego: non provo nemmeno a piazzare un chiodo tanto non servirebbe a nulla e, rapidamente, raggiungo il clessidrone a metà tiro. Salgo ancora qualche metro e pianto l’unico chiodo del tiro: ho il braccio già anchilosato, ottimo! Poi raggiungo il cordone, la mia ancora di salvezza e quindi la sosta. Oramai questa lunghezza sta diventando una formalità.

Non vedo il pile di Fabio. Tra l’imbraco, il cordino usato come bandoliera ricolma di ferri e il resto dei cordini, il novello Colombo è un bell’albero di Natale. Peserà 5 o 6 chili in più del normale!

Fabio sale rapido alla sosta, staffa, piazza lo 0.3, sposta la staffa sul friend e la carica. Il Camalot ha un movimento e di riflesso lo sfintere del capo cordata ma poi il friend rimane nella fessurina. Piazza l’1 e sale. Praticamente è al massimo punto raggiunto nel precedente tentativo. Guadagna ancora qualche centimetro e poi piazza un chiodo e un knifeblade.

Praticamente il duro del tiro è fatto ma Fabio desiste; la roccia non gli ispira grande fiducia e tanto meno un sasso malamente incastrato e così, alla fine, decide di tornare in sosta. Oramai sta diventando una routine: riusciamo a scalare da primi solo per pochi metri e poi la testa e i muscoli vanno in poltiglia!

Sono al knifeblade; osservo la roccia sopra di me: a parte il sasso-ghigliottina, non mi sembra poi così cattiva, certamente delicata ma non marcia. Salgo un po’ e piazzo il solito mitico dadino. Prima o poi dovrò decidermi a comprare qualche dado piccolo in più: il più delle volte, grazie a quel piccolo blocchetto metallico sono riuscito a uscire dal merdaio.

Salgo ancora, piazzo un paio di friend e sono a un paio di metri dal tetto. Il posto è ottimale per piazzare la sosta: finalmente abbiamo terminato il tiro! Pianto un chiodo ma questo entra per pochi centimetri; sono in piena trance da apritore: martello di destro, poi di sinistro e infine a due mani, ma quello non si smuove di mezzo millimetro. Ne metto un altro in una fessurina sulla destra e questo canta per bene per poi infilarsi completamente nella roccia. Mi intestardisco con la fessura di sinistra e provo a piazzare altri due chiodi, ma quella è evidentemente ceca perchè i ferri entrano solo per metà. Recupero Fabio che resta perplesso sulla tenuta della sosta: decidiamo di rinforzarla con un’ulteriore universale nella fessura di destra. La spaccatura non ci tradisce: ora la sosta è a prova di bomba!

Ma non è l’unico motivo per gioire. Guardando sopra la nostra testa, oltre il tetto, la fessurina continua diritta, strapiombante su roccia compatta come un castello di sabbia. Stando alla guida del CAI, la via Lario sale da lì. La nostra via, almeno nelle nostre intenzioni, traversa invece a sinistra. Fin’ora però non abbiamo incontrato nessun chiodo, nessuna traccia di una sosta e, guardando in su, la situazione è la stessa. Possibile che Boga sia passato da lì? Guardo nel camino alla mia destra: c’è un ferro arrugginito che sporge dalla parete e poco sotto una sosta con un vecchio chiodo. Cazzo, allora la Lario passa in quello stomachevole camino-fessura! E quindi qui non ci ha messo piede nessuno! Abbiamo appena sverginato un’impegnativa lunghezza! Spettacolo! Non sto più nella pelle.

Poi guardo a sinistra: il traverso non sarà per nulla una passeggiata. Fabio getta la spugna ma io ho già in mente dove tentare. Si potrebbe piazzare un friend sotto il tetto e poi uno rovescio poco più a sinistra. Quindi ci sarebbero un paio di metri al cardiopalma per poi raggiungere una nicchia sopra la quale c’è il posto per un bel 4 o forse un 3. In alternativa si potrebbe traversare direttamente dalla sosta: sembra un po’ più semplice, ma non ci sono possibilità di proteggersi, a meno di pendolare. Provo. Mi carico la ferraglia e parto; piazzo lo 0.75 nel buco e lo osservo sistemarsi. La parete alla mia sinistra è maledettamente verticale e non sembra offrire buone possibilità di traversata. L’idea poi di affidarmi ad un altro friend posizionato a testa in giù non mi rallegra. Non mi resta che tentare di piantare un chiodo; questo entra nella fessura ma poi si piega in obliquo. Continuo a studiare quella placca e la successiva nicchia. Non ho idea se questo sarà il tratto più impegnativo o se la fessura successiva ci darà altro filo da torcere; non sono convinto di proseguire e mentre lascio il criceto girare nella sua ruota, cerco tra il marasma attaccato all’imbraco una maglia rapida. La decisione è presa: abbandono, all’inizio penso definitivamente ma poi, già al sicuro della sosta, le difficoltà sono smorzate, il desiderio di tornare si fa di nuovo vivo e alla fine salutiamo la parete con un convinto arrivederci. Certo che questa salita ci sta facendo sudare non poco mettendo a nudo la nostra inesperienza in fatto di chiodatura ma il desiderio di passare là dove nessuno ha messo piede è uno sprone ben più forte delle avversità incontrate. E poi, che gusto ci sarebbe se mancasse un po’ di sana lotta con l’alpe?


Cavallo Goloso


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