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HELLISMANNALEID, LAUGAVEGUR E SKOGAR TRAIL – LANDMANNALAUGAR

sabato 14, giovedì 19 luglio ‘18


Alla fine arriva il momento di salire sull’aereo. Ho prenotato i biglietti mesi fa e nelle ultime settimane la domanda è stata solo una: riuscirò a sopportare il mio compagno d’avventura? Non corro il rischio di arrivare ad uno scontro epocale tra titani della cocciutaggine? A questo punto non posso tornare indietro: messo piede sulla scalette, l’avventura è partita.

L’Islanda non mi da un gran benvenuto ma, piuttosto, apre le porte per un definitivo crollo dei nervi: cielo grigio e pioggia sono l’umida accoglienza dell’isola nordica tanto che inizio a pensare che sarebbero tornati utili un paio di braccioli! Piazzo quindi la tenda all’unico campeggio della capitale schivando il più possibile il contatto con gli altri ospiti così da abituarmi quanto prima al mio stato di eremitaggio e poi non mi resta che attendere l’indomani cercando di evitare di slogarmi le falangi dei pollici. Sabato pomeriggio salgo sul pullman per Leirubakki o almeno quella dovrebbe essere la destinazione ma, finchè non inizierò a camminare, proverò sempre una certa sensazione di disagio. Poi il torpedone si ferma, carico il saccone sulle spalle e, col masso di Sisifo appollaiato dietro la schiena e sotto un sole che fa il timido dietro le nuvole, mi avvio alla partenza. La strada si srotola lungo la pianura come i nastri d’asfalto americani ma ciò che veramente inizia a fare crescere l’ansia è il cartello per Rjupnavellir: le distanze si devono essere dilatate un po’ come la pasta della pizza perchè i 22 km segnalati sono esattamente il doppio di quanto avevo calcolato. Già mi vedo camminare nella notte nordica ma, d’altra parte, non posso che iniziare la lunga marcia stile corsa di Forrest Gump ma senza la possibilità di voltarsi e dire: “sono un po’ stanchino!”. A Rjupnavellir il tempo ha corso come Bolt: non posso permettermi di fermarmi e così proseguo fino alle cascate di Fossabrekkur dove piazzo il primo bivacco scampando così dal nugolo di insetti che da alcuni minuti ha iniziato a girarmi attorno come fossi un favo di miele. La domenica mi vede in campo al mattino presto e oggi imparerò che il cammino a volte è una marcia su distese laviche e pianeggianti stile campo di Holly e Benji. L’insolito panorama lunare ha poi un qualcosa di spettrale e contemporaneamente intrigante che mi spinge a schiacciare l’otturatore della macchina fotografica come un giapponese a Venezia. Arrivo così ad Afangagil e poi, dopo aver scampato un potenziale guado facendo il ballerino sui massi sporgenti, raggiungo e supero Landmannahellir per poi piazzare la tenda appena superato il lago di Lodmundarvatn. Praticamente ho già coperto una parte di quella che la guida indica come terza tappa: i piani iniziano quindi a girare nel verso giusto e la meta finale inizia ad apparirmi un po’ meno irraggiungibile.

Lunedì sto camminando da poco più di un’ora in un paesaggio dominato da verdi fluo e ho oramai fatto il callo alla stranezza nordica dei triunvirati di pecore che pascolano solitari quando inizio a sentire un pizzichio sotto la pianta dei piedi. L’incubo inaspettato inizia a materializzarsi: le fiacche! Se dovessero formarsi e poi scoppiare saranno cavoli amari! Sistemate le calze riprendo la mia marcia con l’unico obiettivo di guadagnare ulteriore strada finchè, poco prima di arrivare a Landmannalaugar al termine della terza tappa, valico la porta di un nuovo mondo. Scavalcato l’ennesimo valico mi trovo infatti proiettato sulla tavolozza di Picasso con rocce dalle variegate tinte che riempono lo spettro dal giallo al rosso passando poi all’azzurro e il nero. Sono dentro un cartellone pubblicitario dell’Islanda con tanto di fumarole e sorgenti d’acqua calda e, dopo due giorni in cui ho incontrato una sola persona, riscopro con iniziale piacere che in giro c’è anche qualcun altro. Così proseguo sul tracciato della quarta tappa quella che, insieme alla successiva, si rivelerà essere la più particolare e variopinta dell’intero percorso. Dopo aver guadagnato un po’ di quota e aver attraversato l’ennesimo altopiano questa volta coperto di neve, arrivo così a Hrfantinnusker. La mia politica del risparmio e l’idea di voler chiudere la spedizione in stile alpino mi impongono però di continuare a camminare sul pianoro innevato per trovare un posto dove stabilire il campo notturno. Alla fine, preso a pietà dalle suppliche delle mie gambe, piazzo la tenda su una specie di infelice valico martoriato da una brezza che mi farà passare la notte più fredda dell’intera vacanza. L’aria condizionata perö non è la mia preoccupazione principale visto che, una volta sciolta la neve e preparata la lauta cena, vado in paranoia per la fiacca spuntata sotto il piede destro.

Il quarto giorno imparo due novità. Primo che a volte è necessario guadare i fiumi fatto che, tra l’altro, da particolare sollievo alle estremità. Secondo che certe pianure possono essere un calvario peggiore degli avvicinamenti in val Masino! La pianura della morte che mi porta verso la zona dell’ennesimo bivacco è infatti una distesa arida, scura e sassosa che sembra montata su un tapis roulant in continuo allontanamento.

Mercoledì dovrebbe esserci una tappa di riposo in previsione dell’ultima giornata quando mi aspetta la mazzata finale. Così provo a prendermela concedendomi un’insolita pausa di lettura verso l’ora di pranzo che attira le attenzioni di una fotografa orientale la quale, dopo lo scatto, mi saluta con un sorridente “good luck!”. Mi passo la mano sul mento e poi tra i capelli: possibile che sembri già un lurido barbone? Fortuna vuole che qui non dovrei rischiare l’estradizione! Poi finalmente, dopo giorni passati a vedere muschi e licheni, torno ad incontrare delle piante mentre attraverso un’intricata giungla di betulle nei pressi di Langidalur per poi fermarmi a bivaccare in un tranquillo boschetto vicino Basar dove riesco a sfuggire alle attenzioni del gestore del campeggio locale.

Giovedì ho l’ultima tappa e anche quella più alpina: dovrò infatti salire per un migliaio di metri, passare tra due ghiacciai che sembrano due giganteschi panettoni passati sotto lo schiaccia sassi e poi scendere lungo il versante opposto in vista dell’oceano. Come ogni mattina, al mio risveglio, so che dovrò essere più veloce del mio cacciatore, il tempo inesorabile. Come ogni mattina, al suo risveglio, il tempo inesorabile sa che dovrà essere più veloce del sottoscritto anche se, oramai, ha perso ogni speranza mentre si mangia le lancette per l’accordo preso con Trenitalia. Così mi alzo relativamente presto anche perchè nella tenda arancione sembra di avere un faro puntato, preparo il saccone e poi me lo carico per l’ultima volta. Quando ho oramai finito di guadagnare quota, vado ad infilarmi nelle nuvole perchè un pizzico di estremismo dopo 5 giorni di piattume è quasi d’obbligo e così, senza quasi accorgermi, mi ritrovo nella zona dell’eruzione del 2010. Una breve deviazione mi porta al rifugio Utivist prima di imbarcarmi nell’interminabile discesa che mi deposita alla base della cascata Skogafoss e in mezzo alla masnada di turisti da piazza san Marco.


Cavallo Goloso


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