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GRANDINAGIA – VAL BEDRETTO

sabato 10 dicembre ’22


Tecnicamente sono già alla terza uscita dell’anno ma difficilmente potrei sostenere di avere fatto altrettante scialpinistiche. Dopo il Ritzberg infatti ho avuto l’ideona di provare la capanna Corno Gries in Bedretto, un po’ perché di neve in giro non è che ce ne sia così tanta e un po’ per le limitazioni della gita sociale dei neofiti. L’obiettivo era quello di dare un assaggio della disciplina sperando di non trasformarlo nell’ultima esperienza di scialpinismo, tenendo poi bene a mente che il bollettino prometteva un bel 3 un po’ da ogni parte e, non ultimo, cercare di evitare di passare troppo tempo seduti in macchina. Insomma, una bella sfida per quella manciata di neuroni ancora in grado di lavorare che mi ritrovo nella scatola cranica. Da qui la brillante idea di raggiungere il rifugio, rinvigorita dal potenziale optional di infilarsi nel locale invernale per consumare il pranzo. Unico neo della gita (oltre al fatto che di sole ne abbiamo visto quanto quello che si becca sotto il tunnel del Bianco) è che se quello si definisce scialpinismo io, scarpone, potrei arrogarmi il diritto di giocare a pallone meglio di Messi.

Ancora una volta poi mi sembra di sopportare meno bene il freddo: sarà forse che nell’ultimo periodo, tra una cosa e l’altra, ho tirato un po’ i remi del caianesimo in barca ma è anche vero che l’allenamento col termostato di casa dovrebbe dare i suoi frutti. Mi sento però in forma e così inizio a mangiarmi la salita e, al contempo, filosofeggio sulle domande esistenziali dello scialpinista: ma da questo bosco dove diavolo scenderemo? In effetti la situazione sembra alquanto intricata con una serie di arbusti che ricordano la tela di Shelob, forse solo un po’ meno appiccicosi. Ovviamente la questione resta lì appesa perché, saggiamente, me ne occuperò più tardi: ora l’imperativo è solo uno, salire! All’alpeggio di val Dolgia raggiungiamo il trio che ci precede, loro però vanno a destra mentre noi seguiamo le tracce verso sinistra infilandoci sempre di più in un ambiente che ricorda un film in bianco e nero. La linea muore sul crinale, una specie di proto-vetta che il senso etico dell’aquila non può considerare come punto d’approdo, così guardo il pendio intonso che mi sovrasta e inizio a provarci. L’approccio però non è dei più vincenti: ho la sensazione che il declivio sia eccessivamente carico, soprattutto sul lato destro mentre dal sinistro, se dovesse staccarsi qualcosa, rischierei di finire sulla traccia che sale al Poncione di Val Piana. Probabilmente il sano lascerebbe perdere, toglierebbe gli sci e si godrebbe la polvere in attesa di finire nella tela di Shelob. Il mio neurone congelato, invece, mi suggerisce di provare per la linea di sassi affioranti che, più o meno, taglia al centro il pendio in verticale: se spuntano le rocce, qui la neve dovrebbe essere di meno. Elementare, Watson! E così gli sci finiscono nello zaino e io inizio a navigare e scavare trincee nella neve. Il pendio regge e io raggiungo la parte sommitale decisamente meno ripida. Riprendo a dipingere la traccia con gli sci ai piedi ma, poco sotto la vetta, sono ancora costretto a cambiare assetto. Guadagno lentamente qualche metro col Walter che scuote la testa conscio che la mia cocciutaggine non porterà a nulla. Intanto mi domando se continuare a tirare plastica possa avere un qualche riflesso positivo nel cercare di decifrare le rocce nascoste sotto il velo di farina gelida. Evidentemente però l’equazione non torna: gli scarponi sembrano due ferri da stiro che scivolano sui sassi che scopro e alla fine, dimostrando la mia arguzia, arrivo alla stessa conclusione del Walter e, parafrasando il Manzoni: la vetta non sa da fare! L’aquila piange ma io ho altro cui pensare: non tanto la tela del ragno (a dire il vero di quella ho perso memoria) ma di quell’infido pendio che ho salito a piedi. Una rapida sequenza di curve e sono al principio della resa dei conti. Il pendio sembra tenere: una curva, poi un’altra e sono fuori dalle rogne. Ma, soprattutto dopo che il sipario di nubi si è sollevato un po’, ora la realtà sembra molto più chiara: con la luce giusta, l’ambiente non è più così ovattato, le pendenze assumono il reale aspetto e pure il carico di neve in realtà per nulla così elevato tanto che un paio di lievi grattate non me le leva nessuno! E poi arriva il boschetto: le dita ossute degli alberi ce la mettono tutta a trattenermi tra loro ma io me la svigno con l’eleganza di un pinguino sul pack.


Cavallo Goloso


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