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DISGRAZIA – VAL MASINO

domenica 10 aprile ‘16


Cos’è ma, soprattutto, dov’è l’avventura? A volte basta solo alzare il naso all'insù e allontanarsi dalla massa per assaporarne un briciolo, anche senza pensare a destinazioni esotiche o dall’altra parte del mondo.

Le trombe del caianesimo squillano la loro sveglia: perchè non mi do mai una pausa? Perchè il destino del caiano va a braccetto con levate allucinanti? Perchè è scritto nel DNA, è un impulso istintivo imprescindibile! Così, ancora una volta, eccomi col Ricky a puntare alla mitica val Masino, quasi un mantra per l’estremismo avventuroso anche se oggi la meta è una classica scialpinistica e non una cima generalmente snobbata dagli sciatori normali (in tutti i sensi!). Sapendo però che con l’auto è possibile arrivare fin poco sopra lo Scotti, non immaginiamo certo di trovare compagnia in una valle ancora avvolta nel letargo invernale. Invece il nastro d’asfalto libero si alza ben oltre il rifugio e, con certa sorpresa, scopriamo che già diversi ci hanno preceduto; poco male: non saremo costretti a battere traccia! Risaliamo quindi l’ultima e ben nota scorciatoia per buttarci poi all’assalto del primo pianoro. Oddio, Ricky all’assalto ci va subito: parte come un forsennato, come avesse il pepe nel culo mentre arranco cercando di scaldare il mio diesel. Non voglio certo bruciarmi con partenze a razzo per poi impiantarmi da qualche parte prima del traguardo!

Al secondo pianoro la situazione si fa più chiara: davanti abbiamo almeno 4 scialpinisti (a cui poi se ne aggiungerà un quinto), due dei quali oramai quasi già impegnati a risalire la cresta dell’enorme morena. Noi invece optiamo per il percorso alternativo, restando nella valletta tra le due montagne di detriti temendo poi, più avanti, di dover perdere quota per scendere all’inizio del ghiacciaio.

Intanto la mole del Disgrazia ci si para davanti maestosa e minacciosa come ostacolando l’arrivo del sole: la cresta pare già in cattive condizioni, ancora ammantata in uno scudo bianco come una coperta calata a coprire le sue rocce dal crostante colore rosso fuoco. Un grosso punto di domanda cala sui miei piani ma, al momento, lascio da parte ogni sogno di gloria e mi limito a pensare al lenzuolo disteso davanti agli sci. Il motore gira bene, seguo la mia traiettoria e accumulo metri dietro le code. Tutto insomma fila liscio finchè non mi ricongiungo con la traccia già presente; davanti deve esserci una specie di skilift umano: il percorso risale con una pendenza inaudita, come a voler risparmiare al massimo lo sviluppo, con il risultato che i polmoni invocano aria, il cuore batte all’impazzata, le gambe si riempiono di acido lattico e bastano pochi passi per costringermi ad una pausa. Forse chi è là davanti si è seduto direttamente in un cesto di pepe!

Così la sella Pioda, inizialmente apparentemente vicina, si allontana sempre più: arrivo all’altezza del canalone Schenatti e mi fermo ad osservarne il ripido scivolo. L’idea iniziale era quella di salire su per il pendio, guadagnare la cresta e da lì raggiungere la vetta. Facile sulla carta, ben più complesso nella realtà. Cosa potrebbe succedere una volta che il sole avrà fatto capolino sul pendio nevoso ancora troppo carico? E se poi non potessimo scendere dalla via di salita e dovessimo percorrere la cresta? E se questa non fosse in condizioni? Sarebbe una bella barzelletta se il grande Fraclimb e un tecnico del soccorso alpino dovessero chiamare i soccorsi perchè incapaci di tornare a valle! Così l’idea del canale è presto abbandonata per la più sicura ma incerta classica cresta. Risaliamo quindi gli ultimi metri verso la sella Pioda raggiungendo il termine delle tracce e poi alziamo lo sguardo verso l’avventura. Entriamo in punta di piedi, come se l’accogliente montagna volesse darci l’opportunità di abituarci al nuovo ambiente. Certo, non potremmo immaginare che andrà invece a disseminare una serie di piccole incognite che, alla fine, ci costringeranno a desistere. Il primo ostacolo è al termine del traverso, quando mi trovo costretto a iniziare a risalire per guadagnare finalmente il vero filo di cresta. L’ammasso nevoso ricopre gli appoggi rocciosi costringendomi ad un’insistente e metodica opera di pulizia, è forse il momento più adrenalinico della salita: sono slegato e la ruggine nell’affrontare questo terreno è piuttosto spessa! Cerco allora di sottomettere le emozioni al freddo ragionamento mentre mi adopero per scovare un appoggio stabile con i ramponi alla disperata ricerca di un qualcosa che sia minimamente consistente. La picca affonda becca e manico nell’ammasso nevoso e finalmente mi alzo. Lentamente supero il tratto critico per raggiungere il pendio sovrastante che mi richiede ancora una certa dose d’attenzione. Solo in cresta però decidiamo di legarci: il passo seguente mi costringe infatti ad aggirare uno scudo roccioso su una lingua nevosa sotto la quale non sono sicuro ci sia qualcosa di diverso dall’abisso. Ma la prova che il percorso passi di lì è nei segni delle ramponate: libero gli appigli necessari e mi isso sopra la paretina. Le possibilità di proteggersi sono pari a zero: certo, se ci fosse un po’ meno neve non ne sentirei nemmeno la necessità ma progredire su un ammasso soffice e poco consistente richiama istinti altrimenti sopiti. Raggiungo un sottile filo di cresta, pochi metri che mi separano da un gendarme dove potrei facilmente sostare. Solo che quei pochi passi compresi tra due precipizi suonano come un imperioso “alt!” risvegliando violentemente l’istinto di sopravvivenza: e se l’ammasso nevoso dovesse cedere? Precipiterei sulla nord o verso sud? L’unica salvezza è il cordone ombelicale che mi lega alla sosta del Ricky e proprio grazie a quella dispensatrice di linfa vitale mi decido a superare quei pochi passi. Se non altro, questi ostacoli mi galvanizzano infondendomi ancora più carica mentre in testa suonano le musiche caiane, ulteriori sproni a proseguire verso l’agognata vetta che sembra oramai ad un tiro di schioppo. Più avanti intanto si profila una specie di pandoro nevoso difeso alla base da un tratto quasi verticale: intanto però mi accontento a pestare neve lungo la parete sud aggirando l’ennesimo torrione. Mi trovo quindi alla base del pan di zucchero mentre la via che avevo individuato si palesa irraggiungibile: non resta che tentare da uno stretto passaggio compreso tra due rocce che, disperatamente, cercano ossigeno affogando sotto il freddo ammasso nevoso. Ricky libera giusto lo spazio per un Camalot rosso e io quindi posso partire nuovamente verso l’ignoto. Ancora una volta, mi ritrovo quindi impegnato nell’opera di pulizia mentre lentamente mi alzo verso l’alto sbarcando sul soffice ammasso soprastante. Ora è solo questione di polmoni ma, su quelli, posso fare tranquillamente conto. Affondando gli scarponi nella neve, raggiungo finalmente la cima del pandoro mentre la vetta, a quel punto, si staglia ben più avanti di quanto avessi creduto. Aspetto il Ricky e poi riprendo a salire fino al pinnacolo che ci sovrasta convinto che oramai le difficoltà siano alle spalle. Ovviamente la realtà è ben diversa da quanto potessi sperare! La discesa da quel filo di cresta è infatti tutt’altro che facile: l’unica via è seguire l’andamento della montagna e calarsi verso la sella seguente ma appigli e appoggi rocciosi lasciano solo un minimo segnale della loro presenza. Inoltre, più avanti, si profila l’ennesimo pendio ripido e carico di neve, quindi un altro tratto di cresta e, se la memoria non mi inganna, una breve discesa prima di affrontare la spalla terminale. Praticamente siamo sopra l’uscita del canalone Schenatti e sono ancora ben convinto e motivato nel proseguire, con la mente completamente focalizzata sull’obiettivo tanto da non dare peso al tempo che scorre: mentre infatti siamo saliti alla sella Pioda in meno di 4 ore, ne sono già passate due da quando abbiamo iniziato a scalare la cresta e l’altimetro promette ancora un centinaio di metri prima di raggiungere il punto più alto! Il ritorno alla dura realtà è opera del Ricky: sono un po’ titubante, questo continuo inseguirsi di piccoli enigmi mi sta proprio ringalluzzendo ma alla fine concordo nel girare i tacchi e lasciare la montagna al suo letargo.

A quel punto il pensiero non può che correre alla sciata: il tempo trascorso lungo la cresta ha certamente logorato irreparabilmente il manto nevoso cosa che si tradurrà in una disperata lotta per perdere quota. Ricarico quindi lo zaino col materiale e, affardellato all’inverosimile, mi tuffo lungo la discesa: ma ancora una volta le previsioni sono disattese dalla realtà. Il sole ha infatti compiuto un ottimo lavoro, regalandoci una neve primaverile che ci permette di fare scivolare gli sci liberamente in una discesa semplicemente da urlo: insomma, quanto il Disgrazia ci ha preso per il mancato raggiungimento dell’agognata cima, tanto ci ha saputo ridare con una sciata mozzafiato fino al pianoro più alto.


Cavallo Goloso


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