racconto del pizzo del ferro orientale, val masino (sondrio, lombardia)


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PIZZO DEL FERRO ORIENTALE – VAL MASINO

domenica 13 e 20 marzo ‘16


Il caiano vero oramai è una razza rara. Non è per nulla facile trovare qualcuno disposto a levatacce assurde, portare gli sci in spalla e poi spararsi diverse ore di pelli dove non si trova anima viva. Così parto nuovamente da solo per cercare di chiudere i conti con questa montagna. Già a san Martino però le rosee aspettative iniziano ad offuscarsi nella coltre grigia che sommerge le cime. L’ottimismo però non cede il passo e, confidando in una promessa schiarita, carico gli sci in spalla e inizio a salire su per il sentiero. Tutto sommato la salita non va male: riesco a infilare gli sci quando sono ancora nel bosco per poi salire lungo il percorso di discesa dove mi gusto una lotta col pendio forse un po’ troppo ripido. Alla fine, vinco la battaglia, raggiungo i pendi sovrastanti e rapidamente guadagno quota verso il bivacco. Peccato solo che la promessa schiarita sembri aver girato i tacchi facendomi ben presto trovare avvinghiato nella stess morsa nebbiosa che avvolge i picchi soprastanti. A quel punto, è ormai chiaro che il secondo tentativo naufragherà in un nulla di fatto ma, almeno, cerco di raggiungere la tolla di latta giusto per definire un punto certo d’arrivo. L’altimetro segna la quota giusta, la zona più o meno è quella ma del bivacco nessuna traccia: forse che sia stato fagocitato dalle nuvole? Mi arrendo all’ulteriore sconfitta e, non riuscendo a capire cosa ci sia a un centinaio di metri di distanza, cambio assetto e inizio la discesa. La neve è pessima, con una crosta non portante che cede praticamente ogni volta che cambio direzione. Il risultato è che sono più le volte che mi trovo per terra rispetto a quelle in cui rimango sui legni. Riesco comunque a scendere fin sotto i 1500m quando, cioè, gli sci iniziano a chiedere pietà grattando ripetutamente sulle rocce. Così, dopo aver mancato la cima, la val del Ferro delude anche le aspettative sciistiche segnando la chiusura di un week end quantomeno rivedibile.

Non mi do però per vinto e, una settimana dopo, sono ancora da queste parti a ritentare la vetta col Ricky che ha colto la sfida o, forse, si è fatto intortare nell’ennesimo progetto masochista. Il caianesimo batte ancora! Usciamo dal bosco e, finalmente, inforchiamo gli sci; i problemi però iniziano praticamente subito, quasi come se un Deus ex machina si diverta a mettermi ripetutamente i bastoni tra le ruote: la boccola dello scarpone destro del Ricky ha oramai raggiunto il suo fine vita e l’attacco non riesce a morderla sufficientemente con il risultano che ogni due passi si stacca. Nonostante il cielo limpido, funeste nubi si profilano all’orizzonte mentre vedo sfumare la vetta, ancor prima di potermi essere avvicinato al campo di battaglia. Cocciutamente però non ci diamo per vinti e continuiamo a salire fino ad incrociare i 3 responsabili delle tracce di salita già impegnati in una discesa che sembra svolgersi su neve ottimale. Gli altri caiani arrivano addirittura da Trento, hanno dormito al bivacco per poi tentare la cima della Bondasca. Il posto inizia insomma a farsi piuttosto affollato! Riprendiamo quindi la nostra marcia in salita puntando direttamente alla base del ripido pendio a Z che difende il pizzo del Ferro Orientale. A quel punto però, il Ricky getta la spugna: salire con lo sci che continua a staccarsi è qualcosa di fisicamente e psicologicamente snervante, così mi trovo ancora da solo proprio all’inizio del tratto più impegnativo. Risalgo quindi il primo braccio della Z, passo oltre il deposito di una scarica e poi riprendo guadagnare quota. Il fisico sembra reggere bene il dislivello mentre l’odore della cima sempre più vicina è un traino decisamente efficacie! Quando arrivo al massimo punto precedentemente raggiunto, il pendio che ho davanti mi pare meno ripido di quanto ricordassi: lo affronto allora di petto, sci ai piedi finchè questi iniziano a perdere grip costringendomi a caricarli sulle spalle caso mai, più sopra, possano tornarmi nuovamente utili. Solo che salire con i legni sullo zaino è una faticaccia assurda che mi fa sprofondare ancora di più nella neve con il risultato che, prima ancora di aver completato una decina di passi, sono costretto a fermarmi per rifiatare. Inizio a intuire cosa si possa provare su un 8000! Ben presto, l’assetto poco producente mi convince quindi ad abbandonare gli sci: raggiungo rapidamente la fine del tratto più ripido e, a questo punto, tento la soluzione più facile; risalgo infatti un breve e ancora ripido canale sulla sinistra che va a morire sotto una paretina rocciosa apparentemente semplice. La speranza è che, superato il tratto d’arrampicata, potrò poi raggiungere la calotta superiore e da qui facilmente la cima. Ma, come spesso capita, la realtà è ben diversa da come ce la si è immaginata. Mi trovo infatti proprio ai piedi dello sputo di rocce ma non me la sento di proseguire immaginandomi mentre perdo l’equilibrio, il contatto con la roccia e precipito a valle. Forse mi ritroveranno al disgelo o magari verrò inghiottito in qualche anfratto per poi essere sputato chissà dove e chissà quando. Anche se potrei poi godere di fama e gloria, l’idea di stendermi già in una cassa di legno non riesce proprio a stuzzicare il mio interesse, così tento un poco più a sinistra su un altro pendio nevoso molto ripido. Mi basta però un appoggio poco stabile per farmi rivalutare il tutto: e se il pendio dovesse scivolare verso il basso? Alzo definitivamente bandiera bianca quando, probabilmente, sono ad una cinquantina di metri dalla vetta. Potrebbero soprannominarmi “mister renounce!”. Certo, ci sarebbe ancora la cresta est ma dovrei prima superare il pendio nevoso, raggiungere la sella e quindi il tratto roccioso: non ho intenzione di fare attendere oltre il Ricky così, con questa decisione, lascio ogni ambizione caiana e torno al deposito degli sci.

Le prime curve lasciano a desiderare: la neve molle e le gambe affaticate non facilitano certo nella discesa che si profila quindi come l’ennesima lotta. Mi bastano però solo pochi metri per raggiungere la coltre portante e lasciarmi finalmente scivolare verso valle. Più in basso il manto diventa una specie di granita annacquata tutto sommato ancora accettabile tanto da permetterci di lasciare correre gli sci senza intoppi. Così se, insieme alla maledizione del Cavalcorto sembra ora aggiungersi anche quella del pizzo del Ferro Orientale, almeno dal punto di vista sciistico la vallata si conferma un piccolo e poco conosciuto gioiello.


Cavallo Goloso


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domenica 30 marzo ‘14


La scena è quanto meno anacronisticamente comica: un caiano in completo da sci con tanto di attrezzi appesi allo zaino, cammina baldanzoso verso il paese incrociando straniti escursionisti in tenuta estiva che lo osservano incuriositi. Poi come se due mondi antitetici cercassero un contatto, il caiano, pensando alla sua vetta e alle energie profuse, si ferma divertito di fronte ad alcuni boulderisti intenti a vincere le asperità di un masso: ognuno ha la propria battaglia da combattere!

La prima sconvolgente notizia, nonchè amara scoperta frutto di una ravanata estrema con dislivello a doppia migliaia, è che il mio apparato digestivo sta invecchiando.

Ma tutto ha inizio sabato notte quando il destino mi mette i bastoni tra le ruote per ben due volte: prima con il cambio dell’ora e poi con i vicini che hanno avuto la brillante idea di girare un porno verso la 1 di notte con tanto di gemiti e letto saltante stile l’Esorcista. Così, quando alle 5 suona la sveglia, apro le palpebre con il piede di porco, faccio violenza su me stesso e mi scaravento fuori dalle coperte.

Sono le 7:30 quando lascio l’auto a san Martino perchè per accedere in val di Mello dovrei pagare il biglietto per un esborso non previsto dal mio ministero delle finanze così, con gli sci penzolanti sullo zaino, mi avvio per il sentiero sperando di incontrare prima possibile la coltre bianca. Infatti dopo “solo” 1:30 ora di sudate e con all’attivo 700 dei 2300 metri previsti, posso finalmente calzare i legni! Lascio così la primavera, ritorno in inverno e salgo seguendo le pedonate di qualche escursionista che però terminano poco oltre al cospetto di un duro e esposto accumulo: supero il tratto delicato con l’efficace tecnica “della pedata” ed accedo al paradiso; da qui in avanti non c’è traccia di passaggio umano, la neve è intonsa, immacolata come la tela bianca del pittore e io salgo rapido verso il bivacco. Mi sento in forma e l’unica perplessità è data da ciò che mi sta davanti, diversi metri più in alto: il tratto finale che conduce alla vetta e che, visto dal punto in cui mi trovo, sembra un muro da piolet traction! Ma quello sarà un problema da affrontare più avanti, per il momento è meglio ingurgitare un po’ di frutta secca e poi continuare per il dolce pendio che precede la morte certa. A questo punto però accade l’irreparabile e l’imponderabile: le cibarie iniziano a ballare nello stomaco come il letto dei vicini con la conseguenza che inizio a perdere il pieno controllo del mio super fisico. Il profumo della cima si fa però sempre più vicino e quindi stringo i denti fino ad arrivare ad un canalino nascosto non particolarmente ripido ma solcato quasi completamente dai resti di diverse valanghe. Tengo d’occhio i pendii che mi circondano e continuo a salire mentre nello stomaco la danza prosegue altalenante. Esco dal canale e mi trovo sotto il tratto ripido, preceduto da una fascia un po’ più appoggiata e su cui giacciono le palle dei proiettili valanghiferi: continuo a salire puntando ad una zona riparata immediatamente a sinistra del muretto finale. Mancano 180 metri all’agognata vetta, un’inezia in confronto a quanto ho già fatto ed è appena scoccato il mezzogiorno; la cima dovrebbe quindi essere una facile conquista se non fosse per quella maledetta porzione di troppo di frutta secca! Mi fermo a rifiatare, nella speranza che la situazione migliori ma in realtà continuo a sentirmi debole, fiacco, svuotato. Come se non bastasse, dopo pochi minuti, si aggiunge anche un inconfondibile rumore: mi giro a guardare il pendio da cui dovrei salire e vedo precipitare verso valle una piccola scarica; trovandomi quindi solo e non proprio nel pieno delle forze, prendo quello come segnale definitivo e sbaracco sentendomi già decisamente meglio dopo una manciata di curve. Superato così l’infido tratto, lascio correre gli sci verso il bivacco superando rapido e leggero una valle intonsa e senza la minima traccia di passaggio umano; è come essere in un angolo sperduto del pianeta mentre in realtà sono a pochi chilometri da casa e ad una manciata di metri verticali dalla civiltà!

La neve è in ottime condizioni e io ci lascio sopra la mia firma arzigogolata finchè arriva il momento di ricaricarsi i legni in spalla. La successiva passeggiata porta però consiglio facendomi mangiare le mani: se avessi parcheggiato direttamente in valle, mi sarei risparmiato poco meno del dislivello che mi è mancato per raggiungere la cima!


Cavallo Goloso


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