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CRESTA KUFFNER – MONT MAUDIT

martedì 15, mercoledì 16, giovedì 17 agosto ‘17


Sembra che quest’anno stia riuscendo a togliermi un po’ di sassolini dalle scarpe. Prima è stata la volta del diedro Maestri, poi dello spigolo dei Comaschi (e qui, a dire il vero, ho estratto ghiaia come una cava!) quindi della Cassin alla Trieste e ora esaudisco un sogno accarezzato fin da quando ero una caiano infante: passare qualche notte in tenda su un ghiacciaio! Se poi la vista della suite da direttamente sul Gran Capucin e sui capolavori che ci stanno intorno, cosa si vuole di più dalla vita? Forse un materassino che non si sgonfia dopo mezz’ora!

Così, con il saccone stracarico, supero insieme al Walter il morente ghiacciaio verso la Combe Maudit, il campeggio per i prossimi quattro giorni. Troviamo la piazzola a metà tra i bagni (verso il Torino) e la riserva di neve fresca (verso il Gran Cap) e quindi iniziamo a scavare lo spazio necessario per la nostra tenda. Il primo giorno passa così: muli da soma e montatori; per i prossimi invece il programma è piuttosto vago con l’unica certezza che punteremo alla cresta Kuffner al Maudit. Mercoledì proviamo a districarci tra le relazioni raffazzonate su internet senza averne, almeno personalmente, studiato preventivamente il contenuto col risultato che, quando ci decidiamo per la Bonatti Tabou alla Chandelle, scopro mio malgrado che il materiale a nostra disposizione è piuttosto deficitario. Convinto comunque di potermela cavare in qualche modo, ci dirigiamo verso il pinnacolo iniziando ad inseguire le perfette fessure sul granito rosso. Il tentativo però naufraga ben presto a metà del primo tiro quando la carenza di ferri insieme alle mie doti lacunose di fessurista mi fanno pagare dazio costringendomi ad una ritirata con la coda tra le gambe. Insomma sembra che le vie dell’alpinista bergamasco debbano restare un... tabù! L’alternativa allora è salire una linea al Roi du Siam, via di cui alla fine non riesco nemmeno a capire se abbiamo completato il percorso e che, soprattutto, mi sembra una specie “paracarrata” in mezzo ad una marea di eleganti guglie. Ma per la ciliegina della spedizione, devo solo attendere l’indomani mattina quando, finalmente, metteremo le mani sull’elegante cresta del Maudit.

Le frontali rischiarano il buio della notte mentre la neve crocchia sotto i ramponi. Forti dell’apparente buono stato di acclimatazione, raggiungiamo agevolmente la base del canale che ci porterà sulla cresta. Inizio quindi a spicozzare superando la crepaccia terminale e riuscendo quasi ad utilizzare la tecnica del camino nell’iniziale tratto concavo del canale. Mi sento bene e tiro la corda senza problemi lungo lo scivolo nevoso piuttosto secco. Il ritmo sembra buono nonostante le condizioni del tracciato non siano ideali: guadagniamo la cresta e iniziamo ad inseguirla fino a trovarci sotto una specie di ampia parete tra neve, roccia e facili passi di misto. I ramponi gracchiano contro il granito mentre mi lascio guidare dal radar caiano, poi passa davanti il Walter che ci porta alla breve e affilata cresta nevosa sotto la punta Androsace poco oltre la quale iniziano i casini. Prima siamo sviati da un paletto che sembra confermare la correttezza del nostro percorso e poi da un friend con cordone e quindi due corde fisse che penzolano poco sopra. Mi butto sulla fessura annaspando con i ramponi al meglio mentre blocco con gli avambracci in posizioni che a livello del mare mai riuscirei a tenere: forse che l’allenamento alla Cassin abbia i suoi lati positivi? Poi branco la corda e mi isso con grazia ed eleganza fino ad un punto di sosta da cui recupero il Walter. Segue una placca su cui imparo ad usare le punte dei ramponi su roccia e poi un’altra tirata lungo la successiva fissa finchè mi trovo sul filo di cresta, proprio sotto l’Androsace. Da qui però non si va da nessuna parte: sono su una lama di coltello e, sul versante opposto verso la Combe Maudit non ci sono linee logiche di discesa. Torno indietro e iniziamo a peregrinare un po’ più a sinistra cercando di raccapezzarci con la scarna relazione ma, di fatto, non riusciamo ad individuare una linea logica di salita. Non ci resta allora che riprovare a salire per le fisse verso una sosta più a destra che, ancora me ne chiedo il motivo, prima avevo bellamente snobbato. La soluzione però è un ennesimo buco nell’acqua ma almeno mi permette di individuare una doppia più in basso, sotto l’inizio delle difficoltà e che, fino a quel momento, ci era rimasta nascosta. Iniziamo quindi a calarci mentre mi pare di intravedere i primi segni di stanchezza dell’amico. La soluzione comunque si rivela vincente: traverso verso sinistra e arrivo sotto il magro canale che inizio a risalire il più rapidamente possibile; mi sembra di essere come il compianto Steck sulla nord dell’Eiger mentre non posso dire altrettanto del Walter. L’uscita del canale è piuttosto delicata: la neve è quasi ghiacciata e io mi ritrovo da capocordata su un terreno in cui il socio dovrebbe muoversi più agilmente del sottoscritto. Mi concentro su picca e ramponi e finalmente approdo nuovamente sulla cresta. Ancora qualche tratto di misto delicato ci porta poco sotto l’ennesimo canale ancora più secco del precedente ma oramai la frittata è fatta. Siamo praticamente alla stessa altezza della punta Androsace, a solo un centinaio di metri dalla fine delle difficoltà. Non è presto ma nemmeno tardi. Ciò che ci sta davanti non sembra banale ma nemmeno insormontabile eppure il Walter alza bandiera bianca. Nonostante le due notti passate sul ghiacciaio, soffre la quota e da lì sembra convinto a non proseguire mentre scendere è praticamente impossibile se non prendendosi una montagna di rischi. L’unica soluzione è chiamare l’elicottero, una possibilità che mai lontanamente ha sfiorato l’anticamera del mio cervello. Ho sempre pensato che chiedere un aiuto esterno fosse l’ultima chance, solo in caso di estrema necessità. Anche quando ho rotto il polso in Grignetta, me la sono cavata con l’aiuto del socio. D’altra parte, questa è una parte del gioco. Eppure non posso entrare nel corpo di Walter, capire a fondo quanto stia male; cerco di convincerlo a proseguire, che in certe situazioni bisogna tirare fuori gli “attributi”. Forse sto solo combattendo con i miei principi ma posso immaginare che quando si sta male tutto questo suoni solo come vuote parole. Alla fine quindi l’amico digita il 112 e poi l’elicottero arriva. Il tecnico mi issa col verricello, l’unica operazione che in tutto questo mi destava qualche preoccupazione. Eppure tutto fila liscio: salgo sul mezzo ma non ho le forze per godermi il panorama del Bianco. L’avventura è finita, mi trovo su un palcoscenico che è al di fuori dell’alpinismo con la sensazione di non avere il polso della situazione, l’orgoglio sotto la punta dei ramponi. Oppure questa era la scelta migliore da prendere?


Cavallo Goloso


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