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CIMA DEL CARRO – VALLE DELL'ORCO

venerdì 22, sabato 23, domenica 24, lunedì 25 aprile ‘16


Non è facile ridurre ad una sequenza di parole una quattro giorni scialpinistica con i suo panorami e le vallate ora selvagge ora più bucoliche, il caldo e il freddo, il vento e le nuvole, le sveglie ad orari inaccettabili e gli occhi che si chiudono davanti al piatto della cena, la compagnia e la gara con Sandro, le attese e le rincorse ma proverò ugualmente a rivivere quei momenti, cucirli in un unico vestito dalle mille forme e i mille colori.

Si era puntato alla Francia ma la vecchia e acida vicina, proprio all’avvicinarsi dell’inizio della festa, alza la cresta e si mette di traverso in previsione di un rock troppo spinto; insomma, l’odiata perturbazione che aveva avuto settimane per fare visita all’arco alpino, decide proprio di farci una capatina nel bel mezzo del lungo fine settimana stravolgendo organizzazione, piani e probabilmente anche un po’ di equilibrio mentale del Lele rendendo in un attimo completamente inutile la montagna di mail che avevano intasato i server nei giorni precedenti. Ma noi, manipolo di irriducibili drogati di polvere o di un più classico caianesimo scialpinistico e con in mano la licenza di mogli e fidanzate ci mettiamo di traverso, rompiamo le uova nel paniere della vecchia bisbetica e ci spostiamo in Piemonte dove le sue urla e i suoi lamenti dovrebbero solo sfiorarci di striscio.

Così venerdì inizio la mia routine di sveglie con dinamite e paranco e, insieme a Edo e Sandro, do il via alla prima personale esperienza di quattro giorni sugli sci con destinazione valle dell’Orco. Ma l’insopportabile sembra aver fiutato il nostro furbesco raggiro cercando in tutti i modi di allungare le sue dita nodose verso la nuova meta dello sballo e promettendo una sua visita già in mattinata, unico motivo per cui non rivivo i moti del ‘48 contro la sveglia apparentemente ingiustificabile per i “soli” 1500m da fare. Fuori è ancora notte e, mentre scaldo i motori della Punto facendo rivivere esperienze rellystiche almeno a detta dei due amici, risaliamo con un viaggio infinito su per la valle dell’Orco fin dove il nastro d’asfalto lo permette. Iniziamo la gita con gli sci in spalla, condizione che sarà il punto comune di tutta la vacanza, avviandoci alla ricerca della prima lingua di neve utile. L’acida vicina sembra essere stata raggirata e forse riusciremo a suonare ad alto volume il nostro rock. Ma è solo una questione di ritardo del bus: quando il torpedone raggiunge la fermata, la vecchia scende con le sue valige e un sorriso beffardo stampato sul viso. In un attimo insomma siamo avvolti in una nebbia spessa e grigia che fagocita la cerchia di cime che chiude la vallata. Accendiamo il radar caiano e seguiamo la direzione incisa nell’hard disk del nostro cervello. La navigazione a vista però dura solo un attimo; la perturbazione riprende il suo viaggio come un turista giapponese a Venezia: scende dal vaporetto, fa due foto di piazza san Marco e poi è di nuovo in mare per fare il giro del Canal Grande! A quel punto è il sole a fare il suo lavoro vaporizzando le nostre carni sfruttando sapientemente il riverbero del manto nevoso. Fortunatamente la tortura dura pochi minuti e, già verso l’ultimo strappo, siamo di nuovo a scrutare il cielo: evidentemente il vaporetto deve aver fatto dietro front per permettere al turista di dare da mangiare ai piccioni! Una sottile velatura inizia infatti a farsi sempre piè corposa senza comunque destare alcuna preoccupazione. Con una certa soddisfazione e un senso di liberazione supero quindi gli ultimi metri e approdo solitario alla vetta del Carro mentre poco lontano le nuvole già si ammassano sul ghiacciaio del Gran Paradiso.

Ingurgito in un solo fiato un grosso bicchiere di adrenalina mentre butto le punte degli sci verso valle: una rapida accelerata mi permette infatti di superare alcune rocce affioranti per poi lasciarmi surfare su un sottile strato di polvere finissima trasformata più in basso in una specie di pappa fortunatamente non ancora troppo pesante ma che, giusto a pochi metri dall’arrivo, mi catapulta con fantozziana capriola non molto lontano da alcuni sassi affioranti: tutto sommato, già la prima gita promette decisamente bene!

Quando arriva il sabato iniziamo il nostro peregrinare per il Piemonte nella speranza di seminare la vecchia arpia che proprio pare non voglia mollare l’osso. Puntiamo quindi alla valle Po e alle pendici del Monviso iniziando la giornata con una simpatica spallata dal pian della Regina fino al pian del Re che poi si protrae ancora oltre lungo la successiva stretta valletta. Intanto i malefici piani dell’insopportabile vicina parassitaria si rompono nel paniere riuscendo solo ad insozzare il contenitore: minacciose nuvole corrono a convegno sopra le nostre teste fagocitando fameliche la vetta del Monviso che non si degnerà minimamente di mostrarsi in nostra presenza. Nonostante tutto, continuiamo ad inerpicarci su per il pendio nevoso finchè, al pianoro sovrastante, la vecchia inferocita chiama a rapporto anche il marito che col suo freddo alito rancido prova in tutti i modi a metterci i bastoni tra le ruote. Imperterriti, risaliamo fino alla sella e da qui al vicino panettone della Meidassa dove finalmente Eolo si arrende alla nostra forza di volontà regalandoci anche una discreta cartolina delle vette circostanti. Restare però ad ammirare un panorama in compagnia di un freddo compagno non è certamente la migliore combinazione così, scambiati i convenevoli, ci tuffiamo giù per il pendio. Quando imbocco l’ingresso del ripido canale saettando tra alcune rocce affioranti, ho come una costosa rivelazione: sarà forse il caso di dilapidare un po’ di patrimonio, far girare l’economia e decidersi a comprare un casco! Intanto gli sci mi portano sempre più verso il basso mentre le gambe pompano e stantuffano per far mordere al meglio le lamine: se in salita faccio la preda rapida e scattante, in discesa mi trovo praticamente sempre a rincorrere anche se, tutto sommato, non arrivo mai ad accumulare ritardi siderali. Così, certi che la bisbetica non ci darà più noia con la sua voce stridula e irritante ci tuffiamo nuovamente sul nastro d’asfalto in direzione delle vallate cuneesi.

L’alloggio non è per niente male: un accogliente chalet in legno che ben presto si ammorberà dei nostri odori di scialpinisti puzzoni. Scoviamo un buon posto per riempire gli stomaci per cena mentre inconsapevolmente insieme agli gnocchi al formaggio ingurgito una qualche sostanza eccitante o, forse, ce la mettono i miei amici nel tè della mattina. Quando infatti parto dall’auto alla volta della Testa dell’Ubac ho già accumulato diversi minuti di ritardo ma, d’altra parte, agli ordini dell’intestino non si pus obiettare! Mi avvio quindi, immancabilmente con gli sci in spalla, alla rincorsa del folto gruppo che mi precede affrontando sostanzialmente quasi tutto il tratto a piedi in perfetta solitudine. Per un momento sono quindi il segugio che ha nel mirino il suo branco di prede ma che, evidentemente, deve aver capito ben poco di caccia. Le raggiungo ancora prima di mettere gli sci dove il pendio inizia finalmente a salire ripido e quindi inizio a superarli continuando nella mia corsa forsennata alla ricerca del limite. Praticamente sarà così tutta la gita: lungo il primo salto che sembra una scuola per “conversionisti”, poi, sci in spalla, lungo il ripido pendio che porta alla sella della Lausa oltre la quale passiamo nella vallata successiva e, vista l’attesa prevista, faccio una capatina alla vicina e soprastante cima della Lausa, infine sulla spalla che mi deposita sul punto massimo caiano. Ma ancora non sono stanco! Siccome poi le prime curve sembrano proprio uno sballo, decidiamo di scendere lungo il vallone ben oltre la sella costringendoci poi ad una ripellata imprevista. Sono sicuro che la risalita sarà come l’iceberg del Titanic, facendomi colare a picco e boccheggiare prima di poter riprendere a scendere. Invece sono ancora in testa a batter traccia e poi, causa terrorizzante rumore di assestamento del manto, a salire appiedato lungo il crinale e le rocce che conducono nuovamente alla sella. Tanto gli alti avranno modo di aspettarmi in discesa!

Ci buttiamo quindi sul ripido pendio dove la neve è rimasta sostanzialmente ancora nelle stesse condizioni della mattina, solo un po’ tritata dai numerosi passaggi di chi ci ha preceduto. Ma il vero sballo arriva ancora più in basso, dove ci accoglie una spolverata di granita che mi fa credere di essere capace di sciare mentre sfreccio tra un dosso e l’altro alla rincorsa dei miei compagni. Sarebbe da ripellare e rigodersi l’orgasmica discesa ma alla fine puntiamo alle macchine e soprattutto alla prospettiva di una succulenta grigliata. Solo che dalle 3 all’ora di cena l’attesa pare un po’ troppo lunga, così in 4 andiamo a sfracellarci le braccia in una piccola e vicina falesia. Munito solo di scarpe d’avvicinamento e dell’imbraco, riesco ottimamente nell’intento dando anche un certo lustro al mio retaggio caiano.

Così arriva il lunedì, ultima levataccia e relativa chiusura della vacanza. La vecchia rompipalle è stata sconfitta ma per ripicca ha mandato il figlio, il signor Gelo che ha abbassato lo 0 a 1200m! Praticamente fa più freddo oggi che non a gennaio! La tattica è molto semplice: devo solo amministrare e evitare di bloccare il motore. Per evitare quindi di prendere il largo, resto tranquillo dietro il Lele entrando poi in una stretta forra che sembra più il tunnel degli orrori del luna park ma con le potenziali lame ben affilate! Passeggiamo quindi con la compagnia della signora in nero intenta ad affilare la sua serie di falci della festa ma, almeno finchè il sole non inizierà a scaldare il pendio a destra, dovremmo poter dormire sonni tranquilli. Al termine della stretta valletta, si apre un inatteso altopiano: prendiamo verso destra e ci dirigiamo verso il monte Enchastraye. A circa 200 metri dalla cima, scatta la rincorsa: guadagno metri, supero Maria Luisa e mi accodo allo scialpinista che mi precede. Raffreddo un po’ i motori e poi, con uno scatto repentino, lo supero dal basso e mi involo alla caccia della testa. Raggiungo poco sotto la cresta finale il primo, lo supero e mi trovo di nuovo davanti. Quando sbocco sul breve crinale finale la vendetta della vecchia si completa: il marito ansima a più non posso e, l’unico modo per non congelare quando sono al punto più alto, è trasformarmi in Kammerlander e infilare il super piuminazzo. A quel punto l’attesa si fa più lunga di quanto mi potessi aspettare tanto che, solo a metà della discesa aggiuntiva lungo il versante opposto rispetto quello di salita, riesco a raggiungere una temperatura accettabile. Ma, d’altra parte, quella polvere quasi intonsa era proprio un invito irresistibile per non svicolare dal programma iniziale! Il risultato è che alcuni di noi si tuffano ancora una volta lungo un altro vallone vergine mentre, da par mio, il richiamo caiano si fa sentire decisamente più forte. Torno sul lato di salita e, più o meno nel punto dello scatto, risalgo insieme all’Andre e a Luca verso la cresta della Rocca Tre Vescovi: vuoi mettere totalizzare la seconda cima, nonché sesta totale, ad una seppur emozionante discesa? Tanto avrò modo di divertirmi lungo il pendio che dalla Rocca porta all’enorme altopiano mentre mi piangerebbe il cuore a non salire il facile ma esposto crinale che si para davanti come una pinna di squalo.


Cavallo Goloso


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