|racconto|   |relazione|   |foto|


CANALE DELLE PALE ROSSE – GRAN ZEBRÙ

sabato 26 marzo ‘22


Fuori è buio, notte pesta: potrei guardare l’ora ma non ho voglia di sgusciare dal sacco a pelo. Cosa diavolo staranno facendo i tizi nel piazzale? Possibile che debbano proprio parcheggiare di fianco a noi? Chiudo le saracinesche degli occhi e riprendo a fare una delle cosa che mi viene meglio, ronfare. Poi la sveglia suona e, a quel punto, tocca alzarci: almeno sono riuscito a convincere il Walter a puntare l’aggeggio lasciando al sole un buon vantaggio. Per il resto ce la prendiamo comoda, niente foga caiana, quella il Walter se la tiene per quando carichiamo zaini e sci sulle spalle. Già, perché nonostante siamo alla fine di marzo, agli oltre 2000 metri del parcheggio non si trova neve, se non qualche traccia qua e là. Ma il vero problema è un altro o, almeno, una questione molto personale: ho il fiatone solo a muovere qualche passo, forse perché devo ancora ben carburare, ma il Walter parte a razzo come se volesse arrivare in cima allo Zebrù e tornare a casa entro pranzo. La corsa prosegue anche quando gli sci passano sotto i piedi e, oramai, vedo la Pizzini come un miraggio salvifico nella speranza che l’invasato si fermi un attimo e mi dia modo di raccogliere il muscolo cardiaco e dare una tregua allo stantuffo dei polmoni. In effetti il rifugio si manifesta un po’ come la manna dal cielo: pausella ristoratrice con l’obiettivo davanti al naso per poi ripartire lasciando la scimmia del Walter a godersi una birretta. Arriviamo così al colle delle Pale Rosse: il canale è secco come la gola dopo una corsa nel deserto e i rimasugli di neve formano pinnacoli che ricordano i penitentes andini, solo molto più in piccolo. Poi, a intervalli, dobbiamo superare delle brevi colate di ghiaccio e misto, il massimo del cascatismo fraclimbiano del 2022 che affrontiamo slegati perchè nonostante il cauto Walter abbia nello zaino il solito spezzone di corda e all’imbraco del sottoscritto tintinnino una coppia di viti e qualche friend, il tutto resterà al suo posto.

- Walter, ma questo tratto sarà almeno una cascata di grado 4, no? E quel passo di misto? M8? -

- Certo, certo... e io ho vinto la medaglia olimpica... -

Ho letto che da qualche parte, forse un po’ più a destra ma potrebbe anche essere più a sinistra, ci fosse una postazione della Grande Guerra, una specie di nido d’aquila nel mezzo della lavagna di roccia e ghiaccio (che certamente all’epoca era molto più abbondante). Ebbene, il quartetto che abbiamo davanti dev’essere un gruppo fantasma o qualche fanatico rievocatore dell’epoca tanto che saltuariamente ci mitraglia con i suoi scarti della salita, raggiungendo il massimo con un obice che avrà le dimensione poco più grandi del doppio di un pugno. D’altra parte salire in simili condizioni è come camminare in un deposito di uova: prima o poi ci scappa la frittata! L’importante è non prendersela in faccia. Arriviamo così al termine del canale: prendo il ramo sinistro e finisco sulla lama della cresta che porta alla vicina vetta. Vuoto infinito (o della morte certa) da un lato e dall’altro. Potrei camminare cavalcioni ma opto per restare sul versante valtellinese finchè finalmente arriviamo in cima: la croce di vetta si staglia sopra le valli mentre sullo scivolo della nord è la baracca austriaca a dominare la scena. Non nascondo che non mi dispiacerebbe darci un occhio, aprire quella porta sulla storia ma alla fine tutto si focalizza sulla discesa con gli sci dalla cima. C’è la favola che cadendo da qui si finisca direttamente a Solda, sarà... a me preoccupa di più il famigerato collo di bottiglia, quello che dovrebbe essere il tratto più ripido. Calzo gli sci e studio il pendio a gradoni accennati, evidente segno delle curve di chi mi ha preceduto.

- Ho visto altri 2 scendere: ha già smollato -

L’informazione mi rincuora però il tizio parte a piedi. Studio ancora un po’ e poi lascio scivolare gli sci. Scendere con i legni non significa sciare. È come l’arrampicata: sotto l’8b non è scalare. Io infatti non arrampico. Allo stesso modo ora derapo. Un osservatore esterno potrebbe chiedersi perchè diavolo non mi rimetta i ramponi, non sarebbe uguale? Forse si, forse no (via di vera arrampicata al Qualido). Almeno potrò raccontare di essere sceso dallo Zebrù con gli sci, ma non di averlo sciato. Provo una curva e in qualche modo resto in piedi; alla successiva il mio fondo schiena è troppo pesante e mi ritrovo per terra ma niente scivolata eterna verso Solda. Mi spiace per le pulzelle alto atesine, decisamente meno per me. Mi infilo quindi su una stretta lingua nevosa e sempre in elegante derapata raggiungo il pendio seguente e il Walter che invece ha trottato fin qui a piedi. Ora si che possiamo sciare, almeno fino al famigerato collo di bottiglia dove la situazione si fa nuovamente triste. La lingua di neve sembra un moribondo che chiede pietà: riesce a stento a farsi largo tra rocce e terra e ancora mi ritrovo a derapare prima di riuscire ad abbozzare una curva saltata. Così è ancora lo stile sopravvivenza che mi permette di superare il tratto che credevo decisamente più impegnativo poi la scimmia torna in groppa al Walter che riaccende il turbo sfrecciandomi di fianco evidentemente particolarmente voglioso del portage finale.


Cavallo Goloso


Per lasciare un commento, clicca QUI