CASCATONE – VAL POSCHIAVO      

venerdì 30 dicembre ‘11


Evidentemente ci troviamo gusto: il freddo e le intemperie sembrano quasi gli ingredienti necessari per andare a fare cascate. Le previsioni annunciano vento tempestoso sulle Alpi mentre il sottoscritto e Fabio illuminati da un raro ma provvidenziale barlume di sanità mentale andiamo a ficcarci proprio ai loro piedi, in val Poschiavo. Chiarito che non ho alcuna intenzione di fare da primo il tiro più duro, mi metto l’animo in pace e mi preparo al prossimo ballo con la paura. Questa volta ho scelto gli scarponi da scialpinismo che garantiscono una maggiore rigidità mentre mi ostino a non procurarmi le dragonne da attaccare all’imbraco; insomma, anche per oggi non vincolo le picche al mio corpo.

Ci infiliamo sul nastro d’asfalto che porta a Cavaglia sotto un cielo che si fa sempre più grigio mentre il vento sembra dormire sonni profondi: possibile che le previsioni abbiano cannato? L’idea non mi tocca minimamente e continuo a osservare con un po’ di preoccupazione quelle nuvole scure che volteggiano sopra le nostre teste.

Ben presto siamo costretti a fermarci: le gomme slittano sulla lastra ghiacciata del tornante costringendoci a montare l’ammasso di ruggine che Fabio chiama catene mentre inizia a nevicare. Vorrei fare dietro front: temo di rimanere bloccato per la neve che attacca immediatamente appena si posa per terra ma non dico nulla e attendo l’evolversi degli eventi. Saliamo lentamente finchè una jeep ci sbarra la strada: oltre è impossibile proseguire anche perchè la strada non è più pulita e quindi l’unica possibilità è levare il deretano dal caldo e comodo sedile e iniziare a sfacchinare.

Siamo avvolti in un mondo in bianco e nero dove dominano le tinte grige, esaltate dal contrasto tra il biancore della neve e il nero degli alberi che paiono dei corpi inermi. Il vento fischia tra le fronde ma è ben lontano dall’essere tempestoso.

Ovviamente canniamo strada. O meglio: le indicazioni ci portano inizialmente a percorrere il sentiero panoramico per poi perdersi nel nulla cosmico. Ci guardiamo in faccia e, dopo un laconico “bene!”, ci infiliamo nella foresta con l’intento di riprendere la strada che ci porti a Cavaglia. Sembriamo due spettri di minatori persi nelle lande canadesi durante la febbre dell’oro: se saremo fortunati, potremmo incontrare Paperon ‘de Paperoni, altrimenti l’orso Yoghi in formato grizzly!

Non scoviamo ne l’uno ne l’altro ma solo la piana di Cavaglia, quando oramai avrei giurato che avremmo desistito: non mi sento a mio agio, ma Fabio è determinato, scorge la cascata e mi fa attraversare tutta la pianura per arrivare al suo cospetto.

Come i soldati in ritirata durante la campagna di Russia, ci trasciniamo affondando fin sotto il ginocchio alla base del flusso gelato. Volevamo la lotta con l’alpe? Eccoci accontentati!

Il vento soffia solo a tratti ma quando sbuffa ci da dentro sollevando una nuvola di gelidi cristalli nevosi. Sembriamo due pupazzi tra la neve sollevata da Eolo e quella che cade, ora meno assiduamente, dal cielo.

Fabio inizia la scalata. Il ghiaccio è in discrete condizioni anche se alcuni tratti richiedono una certa attenzione. Come avevo pensato, gli scarponi da sci si rivelano un’ottima scelta e mi permettono, senza troppo patemi, di raggiungere il capocordata abbarbicato ad alcuni arbusti. È il mio turno. Individuiamo la linea migliore (ergo la più facile) che dovrebbe portarci alla base del salto più ripido. Sopra le nostre teste, come fameliche zanne, pendono numerose stalattiti ghiacciate. Lo spettacolo è meravigliosamente terrificante e, di comune accordo, decidiamo di piazzare la prossima sosta il più defilato possibile. Insomma, i piani sono pronti e quindi non mi resta che partire. Affronto il facile canale che mi conduce alla base del tratto più impegnativo di questa seconda lunghezza. Un chiodo poco affidabile e poco sopra un altro ben piantato e mi accingo a superare il passo verticale. Le picche sono saldamente ficcate nel pianoro soprastante quando il rampone sinistro si sfila dal ghiaccio. Immediatamente sollevo il ginocchio appoggiandolo sul piano ghiacciato subito seguito anche dal destro: sono su solo grazie alle picche mentre le gambe annaspano nel vano tentativo di non scivolare. Minchia, se mi tengo! Finalmente riesco a spostare una picca e quindi a stabilizzare un rampone sul ghiaccio. Mi alzo in piedi sul pianerottolo e finalmente posso prendere fiato. Me la son vista brutta ma stranamente non sono paralizzato dal terrore. In qualche modo ho gestito una situazione potenzialmente pericolosa senza subire alcun danno; solo una cosa è certa: quando torno, mi fionderò all’acquisto delle dragonne. Fanculo l’etica e fanculo ai Froci Cascatisti!

Ora la salita è più semplice ma il ghiaccio scarseggia anche se mi permette di proteggermi adeguatamente fino al punto da cui recuperare Fabio. Prendiamo la decisione ancora prima di ritrovarci appesi alla sosta: il vento discontinuo ma tempestoso, quelle zanne dondolanti, il muro verticale e il ricordo delle mie gambe che annaspano sul ghiaccio sono motivazioni più che sufficienti per gettare la spugna e le doppie.

Dobbiamo ribattere la traccia: il vento ha coperto il nostro percorso d’andata e così ci ritroviamo a vagare sprofondando ora fino al ginocchio ora solo per il piede fino alla stazione del treno. La calda sala d’aspetto è il luogo ideale per sistemare l’attrezzatura prima di riprendere l’infinito viaggio verso l’auto. Mi sembra di camminare da ore: questa malefica mulattiera non ha termine; è come l’universo: in continua espansione! Mentre trascino un piede dietro l’altro, spero vivamente che questa sia l’ultima curva ma poi, più avanti, ce n’è subito un’altra.

Ho quasi perso la speranza quando magicamente compare la sagoma della jeep; la nostra auto dorme poco più avanti sotto 10 centimetri di neve fresca e un solido strato di ghiaccio. Il sensore della chiave non riesce a comunicare con il motore della vettura: dovremo forse aspettare il disgelo? Quando tutto sembra essere finito è la tecnologia a mettere i bastoni tra le ruote mentre l’oscurità ci avvolge nel suo velo. Poi la macchina ha un sussulto mentre il motore inizia a emanare il suo canto che accompagna il nostro grido liberatorio: si torna a casa!


Cavallo Goloso


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